Investe un cane e lo uccide, niente attenuanti generiche se l’ha fatto apposta

Non si applicano le attenuanti generiche nei confronti del responsabile della morte di un cane, che volutamente lo ha investito per ucciderlo, neppure se è incensurato. A stabilirlo (anzi, a ricordarlo) è il Tribunale di Lecce che ha disposto la condanna a due anni di carcere e 10mila euro di risarcimento a favore delle parti civili.

Investe volutamente un cane e lo uccide

Il 23 marzo 2022 la II Sezione Penale del Tribunale di Lecce ha condannato per il delitto di uccisione di animali un automobilista ritenuto responsabile di aver volutamente investito e ucciso un cane. Tale reato è previsto dall’art. 544. Bis c.p. che detta “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni”.

Nel caso specifico la vittima di questa  violenza umana è uno dei tanti “cani di paese”, uno di quegli animali che non hanno proprietari ma che sono conosciuti da tutti, sfamati dai paesani e seguiti dalle associazioni animaliste del territorio che li monitorano senza catturarli. In base a quanto ricostruito l’animale stava dormendo su una piazzola quando un’auto lo ha investito uccidendolo: secondo il Tribunale di Lecce non si è trattato di un incidente, come fin da subito denunciato da Enpa, Tutela Ambiente e Impronta, le associazioni animaliste che si sono costituite parti civili.

Durante il processo è stata dimostrata la volontà di uccidere dell’imputato, grazie alla visione dei filmati delle telecamere di sicurezza della zona e alla perizia di un ingegnere informatico – consulente tecnico delle Associazioni animaliste costituitesi parti civili – che ha provato l’effettiva dinamica dei fatti dalla quale è emersa la volontà dell’autista di investire l’animale colpendolo in pieno con l’auto e facendo persino retromarcia per assicurarsi che fosse morto.

Niente attenuanti generiche per chi investe volutamente un animale

Esaminati gli elementi di prova ritenuti schiaccianti il Tribunale ha condannato l’imputato a 10mila euro di danni da risarcire alla associazioni costituitesi parti civili e alla pena – così come previsto dall’art. 544 bis c.p. – di due anni di reclusione. Per il giudice pugliese non sussistono gli elementi per applicare le attenuanti generiche che garantirebbero all’imputato uno sconto di pena. Nella sentenza si legge infatti che: “L’orientamento nomofilattico ha di recente ribadito come la valutazione riguardo alla concessione delle attenuanti generiche esprima un giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità, purchè il Tribunale motivi riguardo agli elementi di cui all’art. 133 c.p. ritenuti preponderati; in particolare non può essere apprezzato esclusivamente lo stato di incensuratezza che di per sé non rileva e comunque retrocede rispetto ad ulteriori elementi di valutazione, quale le modalità della condotta criminosa. Di recente la Suprema Corte ha precisato che le circostanze attenuanti generiche non si possono presumere e devono essere giustificate da elementi positivi (Sez. III n. 2207/2020).”

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